Nero su bianco. Dal codice al libro a stampa

Maggio - Settembre 2016

La produzione del manoscritto nell’Italia del Quattrocento era al suo massimo splendore: manoscritti superbamente miniati e una differenziata tipologia di libri erano pervenuti, sia nel formato che nella veste grafica, a un risultato di tale funzionalità e bellezza da costituire un insuperato modello per parecchi decenni. All’inizio della sua vita il libro a stampa cerca di riproporre le medesime caratteristiche, fino a diventare quell’oggetto che noi oggi chiamiamo semplicemente “libro”.

Nero su bianco esplora il passaggio dal codice al libro a stampa e la successiva formalizzazione di quegli elementi quali titolo, frontespizio, paginazione, che lo faranno diventare quell’oggetto che noi oggi chiamiamo semplicemente “libro”. I tipografi italiani del XV e XVI resero disponibili non solo i grandi classici della cultura greca e  i testi latini, ma anche quelli ebraici e italiani della nuova letteratura in volgare. Grazie soprattutto ad Aldo Manuzio e alla sua collaborazione con Pietro Bembo, la lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio divenne quella della contemporaneità in tutta Europa.

Solo nel lungo periodo i libri assumeranno l’aspetto che ci è abituale: l’occhio del lettore e le sue abitudini impongono la continuità nella presentazione della pagina, così come in quella delle legature nella realizzazione delle coperte, di regola ancora un momento separato della confezione del libro. Saranno le mutate dimensioni della massa degli utenti del libro e di conseguenza anche i cambiamenti a livello d’istruzione, classificazione sociale e di vita nelle città, che a lungo termine determineranno le trasformazioni strutturali sia nella presentazione esteriore, che nei contenuti. I successivi cambiamenti nella composizione e quindi negli orientamenti del pubblico rappresentano la graduale proiezione della nuova vita cittadina e del flusso sempre più intenso delle comunicazioni. Le innovazioni più vistose, in particolare la pagina del titolo, trovarono più agevole spazio in una produzione copiosa e ampiamente diffusa grazie al largo mercato e al prestigio di edizioni sempre più accurate.

La produzione del manoscritto nell’Italia del Quattrocento era al suo massimo splendore: manoscritti superbamente miniati e una differenziata tipologia di libri erano pervenuti, sia nel formato che nella veste grafica, a un risultato di tale funzionalità e bellezza da costituire un insuperato modello per parecchi decenni dall’introduzione della stampa. All’inizio della sua vita il libro a stampa cerca di riproporre le caratteristiche del manoscritto e nel periodo in cui convivono come prodotti commerciali è quasi impossibile distinguerli se li si osserva chiusi. Ma oltre che nell’aspetto esteriore la stampa non portò novità neppure nell’apparato illustrativo interno, ancora realizzato a mano come nei manoscritti. Gli stessi meccanismi di impaginazione degli incunaboli – i libri stampati dall’invenzione della stampa fino a tutto l’anno 1500 –  rispettano le norme di costruzione dei codici a partire dallo specchio di stampa.

Anche i termini utilizzati agli inizi della stampa provengono dal mondo del manoscritto. Le differenze vanno riscontrate nel prezzo, ma soprattutto nella necessità, per il libro a stampa, di un sistema di produzione per il quale sono indispensabili un consistente assortimento di caratteri mobili di metallo, carta, locali, torchi, manodopera qualificata, e di conseguenza la necessità di un consistente investimento di capitali. Non ultima, infine, l’urgenza di formulare una politica editoriale, per scegliere cosa, come e per chi stampare. Pubblicare un libro che pochi avrebbero comprato significava andare incontro al fallimento: la scelta dei titoli diventava un aspetto cruciale dell’attività editoriale, così come pure il marketing.

La necessità di grandi investimenti di capitali portò spesso alla costituzione di società, alcune delle quali destinate a durare a lungo, altre solo per una determinata tipologia di testi, altre per il tempo di pubblicazione di un’opera.

I cartolai, garanti di un’armonica continuità tra libro manoscritto e stampato da loro contemporaneamente proposti ai clienti con la stessa gamma di opzioni decorative atte a fare di ogni libro un oggetto personale, costituirono l’ossatura commerciale per i primi stampatori e vennero coinvolti nel nuovo mondo della stampa, tanto da diventare a loro volta tipografi, editori e intermediari per la realizzazione di imprese più vaste.

Nei primi libri a stampa si riconoscono tutte le scritture dell’età tardo gotica, caratterizzata da un sistema grafico complesso e vario. In primo luogo la gotica degli scritti scolastici, poi quella più grande e meno rotonda usata nei testi ecclesiastici e infine la littera antiqua, futuro carattere romano tondo ispirato alla minuscola carolina. Ad ogni categoria di opere e quindi di lettori corrispondeva un determinato carattere: i libri di scolastica e di diritto canonico stampati in gotico, in rosso e in nero con glosse a comprendere il testo, i classici latini in caratteri romani. Tuttavia ben presto, la regolarità e l’uniformità tipiche dei caratteri mobili e il rapido sviluppo di una tecnica sia d’incisione, che di fusione, ridussero il loro numero portando ad una omogeneità dei tipi ignota al libro manoscritto, grazie anche al nuovo e significativo fatto consistente nella diffusione dei caratteri di origine italiana. Nel penultimo decennio del secolo XV l’unificazione e la stilizzazione dei tipi appaiono ormai in uno stadio molto avanzato e per la stampa dei testi classici prevalgono il greco e i nuovi caratteri romani o littera antiqua, mentre il gotico o littera moderna, nonostante il nome quello più arretrato, continuò a essere utilizzato soprattutto per i testi giuridici, oltre che in Germania. Se il progressivo abbandono dei caratteri gotici e l’adozione del romano favorirono l’unificazione dei caratteri e dei capilettera, tuttavia il loro costo rimase a lungo elevato e “madri da minii di rame” e “alfabetti di meniature di bussoli” continuarono a rappresentare una quota importante del capitale dell’officina.

Il rinnovamento grafico umanistico fatto proprio dalla nuova arte venne perfezionato a Venezia, che assunse il ruolo di centro dominante della tipografia e dell’editoria del Rinascimento, grazie al grande tipografo-editore umanista Aldo Manuzio.

Alla collaborazione con l’incisore Francesco da Bologna, identificabile con Francesco Griffo, sino al 1502 figura chiave nel disegno dei caratteri greci e latini, si deve l’utilizzazione nei formati in 8° di una cancelleresca modificata all’anticha, detta anche corsivo o italico o aldino. Questo tipo di corsivo, per la sua bellezza e funzionalità, riscosse un enorme successo influenzando i caratteri corsivi di molti altri stampatori e affermandosi quale tipo internazionale.

Il nuovo carattere latino corsivo si ispirava alle forme manoscritte in uso nelle cancellerie italiane del secondo Quattrocento e si proponeva di assicurare alle stampe l’eleganza e la bellezza del manoscritto umanistico. In combinazione con il nuovo formato in 8°, il nuovo carattere finì col qualificare l’attività di Aldo Manuzio, che mise in commercio nuove edizioni portatili volte non tanto ad abbassare i prezzi e a diffondere il libro popolare, quanto a favorire un uso diverso del libro, meno legato allo spazio dello studio, in direzione piuttosto di un ampliamento del pubblico, non necessariamente costituito da letterati di professione, favorendo così nuove pratiche di lettura.

La dipendenza dell’allestimento del libro a stampa dai manoscritti fa sì che solo nel lungo periodo i libri assumano l’aspetto che ci è abituale: l’occhio del lettore e le sue abitudini impongono la continuità nella presentazione della pagina, così come in quella delle legature nella realizzazione delle coperte, di regola ancora un momento separato della confezione del libro.

Nelle edizioni aldine del periodo iniziale si può cogliere la coesistenza delle varie forme di presentazione in uso: negli incunaboli, come nei tardi manoscritti, la prima pagina poteva anche non coincidere con l’inizio dell’opera. Con varie anticipazioni nel Quattrocento il frontespizio si sviluppa dall’occhietto, ovvero  dal semplice titolo dell’opera stampata nella pagina bianca posta a protezione del volume  e si afferma come elemento essenziale del libro nel corso del Cinquecento, prima arricchendosi di elementi e illustrazioni xilografiche e successivamente incise in rame (calcografiche), fino a sdoppiarsi nell’antiporta nel corso del Seicento.

La fortuna del frontespizio va attribuita ad una serie di fattori, fra cui l’affermarsi della paternità intellettuale dell’opera, la funzione pubblicitaria (oggi assolta dalla copertina) e la necessità di identificare immediatamente il prodotto di una tipografia. Il frontespizio raccoglie gli elementi prima sparsi o assenti nelle varie parti del libro: il nome dell’autore, il titolo ormai “distaccato” dall’inizio del testo, le note tipografiche (la responsabilità della stampa), l’editore (quando presente), la data di stampa, gli elementi illustrativi quali stemmi, ritratti e la marca tipografica.

All’evoluzione formale del frontespizio partecipano in maniera diversa editore, tipografo, incisore, autore, a suggerire il titolo più efficace, ma anche il mecenate, sviluppando una particolare funzione mediatrice di comunicazione tra produttori e consumatori, rispecchiando ambienti, situazioni culturali e sociali: cornice, marca, vignetta e titolo sono rivolti al lettore, mentre ritratti, stemmi, dediche, privilegi e approvazione rivelano i rapporti tra stampa e committenza, tra potere civile e  potere religioso.

Nella prima pagina di testo il fregio silografico aderisce, in analogia con quello miniato, alla superficie dello specchio di stampa e i più audaci e forniti di mezzi fra i tipografi, per rendere meglio appetibili i propri prodotti destinati a una nuova e sempre più vasta clientela, faranno appropriato impiego della decorazione e dell’illustrazione silografica, trasmettendola, come i caratteri, ai successori dell’officina tipografica, così da tratteggiare elementi di continuità anche là dove ancora mancano testimonianze documentarie o tipografiche.

Per circa trecento anni la cornice ha decorato il frontespizio del libro a stampa, ma il Cinquecento fu il suo secolo. Le cornici silografiche, la cui evoluzione testimonia il mutamento stilistico, possono essere suddivise in tre grandi tipi: vegetale, istoriato e architettonico.

Gli operatori del mondo librario cominciarono ben presto a voler contrassegnare i loro prodotti con un logo che li distinguesse, come già facevano i cartai con le filigrane o i librai con le insegne di bottega. Spesso editori, tipografi, cartai erano legati tra di loro o per provenienza o per parentela o perché avevano impiegato ingenti capitali, onde diversificare gli investimenti. Sin dal Quattrocento, all’incipit e al colophon si aggiunge un nuovo elemento: l’insegna tipografica incisa su legno. Dapprima una semplice sigla, ispirata al segno che librai e stampatori tracciavano sulle balle dei libri spediti ai clienti, e stampata dopo il colophon o in una pagina bianca dell’ultimo fascicolo, l’insegna diventa ben presto una vera e propria illustrazione pubblicitaria, con funzione di marchio, destinata non solo a indicare l’origine del libro, ma anche ad affermarne la qualità.

A partire dalla fine del Quattrocento, la marca accompagna quasi sempre il frontespizio a testimoniare l’importanza attribuita al marchio di fabbrica, come l’ancora col delfino, forse la più nota fra le marche tipografiche, che un grande intellettuale come Pietro Bembo suggerì ad Aldo Manuzio. L’incremento del numero degli editori-tipografi estese il problema della differenziazione delle insegne impegnando la fantasia degli interessati e degli incisori. È il rinnovato interesse per il mondo classico a chiarire il significato dei motti, oltre alle figure delle marche rinascimentali, derivate spesso da autori antichi.

Alla funzione della marca di identificare il prodotto di un tipografo-editore erano interessati soprattutto gli editori più qualificati, che impiegarono le caratteristiche marche assai note: il giglio dei Giunta, la fenice dei Giolito de Ferrari, il Mercurio alato di Giovanni Rossi, l’aquila per la Società dell’aquila che si rinnova costituita da diversi imprenditori veneziani per la stampa dei libri guiridici, la Vittoria dei Valgrisi, la Pace di Girolamo Scoto. Nel caso di un libraio editore la marca, che collega idealmente il bene al suo produttore, al di là di qualsiasi riferimento territoriale, corrispondeva all’insegna della libreria. Nel caso di un libraio editore la marca corrispondeva all’insegna della libreria e nella Venezia del Cinquecento era noto a tutti che i “librai della gatta” erano i membri della famiglia Sessa. La fortuna delle marche dei libri a stampa è così accentuata che il marchio assume, grazie all’uso tipografico, un nuovo rigoglio e nuovi aspetti grafici in cui gusto estetico e simbolico si connettono con la funzione economica e commerciale.

Nelle immagini e negli autori che suggestionano più fortemente i tipografi si evidenzia l’adozione di un codice classico fatto di divinità ed eroi, figure mitologiche, allegoriche, grottesche, cammei, festoni con frutta e fiori, motivi architettonici, per citarne solo alcuni. Una raffinata erudizione umanistica appare sottesa alla creazione dell’immagine delle iniziali; quelle “parlanti” rivelano la conoscenza approfondita della letteratura greca e latina, e in particolare di Ovidio e delle Metamorfosi. Ovidio influenza il gusto poetico ed ispira gli incisori suggerendo creazioni di grande raffinatezza, svelando la gestazione di una nuova cultura, della quale anche gli artefici del libro si rivelano interpreti dotti e raffinati.

Terminata la fase più propriamente sperimentale con la definitiva affermazione di procedure identiche e ben codificate, il libro a stampa, ormai completamente rinnovato nella sua configurazione grafica rispetto al codice manoscritto, divenne per chiunque il libro per antonomasia, il prodotto più raffinato e diffuso di un modo, tutto artificiale e terreno, di concepire il lavoro dell’uomo.

Va tuttavia ricordato che per accedere alla pubblicazione a stampa un’opera doveva entrare in un lungo processo produttivo che trasformava il manoscritto in un manufatto tecnologico. Ciò fece allontanare dalla pubblicazione e da una più ampia diffusione tutte le opere, già compiute in forma manoscritta, che non potevano ottemperare agli onerosi impegni finanziari imposti dalla stampa tipografica, poiché i forti investimenti, in mancanza di munifiche donazioni, erano ricompensati soltanto da un elevato numero di esemplari venduti in tempi abbastanza brevi. Per questo le prime opere a essere stampate furono quelle che avevano un pubblico ben definito e sufficientemente ampio, come per esempio quelle di argomento religioso, quelle degli insegnamenti universitari di diritto, filosofia, arti e medicina, o quelle delle scuole di grammatica.
Le nuove esigenze grafiche, produttive e finanziarie imposero una forte selezione anche alle opere scientifiche che si apprestavano a entrare in tipografia, indipendentemente dalle loro effettive qualità intrinseche.

La riproducibilità in centinaia di copie delle immagini e delle figure, oltre che del testo, era del resto essenziale alla comunicazione del pensiero scientifico; sarebbe quasi impossibile comprendere l’impatto che tra XV e XVI secolo ebbero le edizioni a stampa sulla ricerca e sulla stessa sperimentazione in ogni ramo dello scibile, qualora le privassimo degli apparati illustrativi.

In pieno XVI secolo, la stampa si trovò dunque a svolgere la duplice funzione di veicolo del sapere antico e di punto d’approdo di quello moderno, imprimendo una forte accelerazione all’intero processo di comunicazione e di elaborazione del pensiero scientifico, favorendo la circolazione e il confronto delle conoscenze. Ciò fu particolarmente vero in quei settori che più degli altri avevano bisogno di trasmettere con illustrazioni, con carte o con mappe gli esiti delle indagini.

La conoscenza della Natura, nei suoi segreti più riposti ma anche nella percezione visiva e nell’idea stessa che se ne forma la mente, trovò nelle immagini xilografiche e calcografiche un valido antidoto agli erbari e ai bestiari medievali, nonché un potente veicolo di comunicazione accanto ai primi tentativi di classificazione e di descrizione analitica delle piante, degli animali, dell’ambiente fisico, dei mari e delle terre vicine e lontane.

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